Il Bangladesh ti cambia la vita

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Durante la serata dal titolo "Il Bangladesh ti cambia la vita" la socia Silvana Federici (nella foto con il nostro Presidente) ha raccontato con l'ausilio della proeizione di foto, la sua esperienza come medico volontario per una m issione chirurgica pediatrica in un ospedale in Bangladesh. Di seguito il testo della relazione

Quello in Bangladesh non è stato il mio primo viaggio alla volta di un paese cosiddetto in via di sviluppo, termine molto in voga oggi per definire un paese del terzo mondo che la via dello sviluppo per ora non la vede di certo. Al tempo della mia prima missione in qualità di medico avevo solo un anno di laurea e non più di 25 anni di età e sono partita da sola alla volta di una missione sperduta nel bel mezzo della savana del Kenia, ma quella è un’altra storia e se vorrete potrò raccontarvela un’altra volta. L’esperienza che racconto qui oggi però è stata quella che più ha segnato e modificato la mia vita, in un paese sconvolgente per noi occidentali, così misero che nessuno, se non chi l’ha visitato, può immaginare.
Non so dire che cosa mi aspettassi dal viaggio in Bangladesh al seguito della già ampiamente collaudata equipe chirurgica pediatrica guidata da Carmine Del Rossi, un collega chirurgo pediatra di Parma, ma dai coloriti racconti di Vincenzo Domenichelli, che è qui presente e che ora è mio aiuto qui a rimini e che aveva già più volte fatto quella esperienza, sapevo che non sarebbe di certo stato un viaggio di piacere. Era il gennaio del 2000 e la mia vita in quel momento stava attraversando una fase particolarmente diciamo così “introspettiva”.
Viaggiare mi piace molto, soprattutto in Oriente, dove la gente è cordiale e gentile e oltretutto è anche piccola di statura come me.
Così con 38 di febbre causata da una violenta influenza, passo da un aereo all’altro per migliaia di chilometri, febbricitante e intontita, tra una pillola di xamamina per il mal d’aereo e una compressa di tachipirina per la febbre. Insieme a me, Carmine, Vincenzo, due anestesisti, due infermiere strumentiste e una infermiera di reparto.
Arrivati nella capitale, Dakka, ci fermiamo per una prima tappa nella missione dei padri saveriani e lì trascorro la mia prima notte in bangladesh. L’indomani, dopo un viaggio di sei ore in pulmino attraverso paesi, villaggi e mercati chiassosi, sempre in compagnia, anche in aperta campagna, di migliaia di persone indaffarate e cariche di materiale di ogni genere fino all’inverosimile, arriviamo a Khulna, la città dove ha sede l’ospedale missionario dove svolgeremo la nostra opera per un mese.
In città la densità della popolazione per strada raddoppia, decuplica fino a far assomigliare le strade a un enorme formicaio rumoroso dove tutti corrono, stravolti dalla fatica e stracarichi di sacchi , cesti, mobili e animali ; a piedi, in bicicletta o in coloratissimi risha tirandosi dietro intere famiglie bengalesi ben agghindate, alla guida di camion sgangherati e coperti di ruggine o di carretti trainati da buoi, tutti sulla stessa strada in file ben distinte: gli automezzi con gli automezzi, i carretti con i carretti, i risha con i risha, i pedoni con i pedoni, gli animali con gli animali…
La febbre è ormai passata, ma mi sento come se mi fosse passato sopra un carro armato, ammaccata e stordita. Dalla malattia, dal viaggio, ma soprattutto dalla confusione, dai clacson e dagli assordanti campanelli delle biciclette. A migliaia.
La confusione aumenta man mano che ci addentriamo nel cuore della città , in mezzo a stradine stracolme di persone e animali (vivi, ma anche morti), di bancarelle di ogni genere alimentare e non, fino a quando….ecco un cancello ordinato e dipinto di fresco che stona in mezzo alla ruggine e all’abbandono come un fiore in mezzo al deserto.
Il cancello si apre ed ecco il miracolo: l’oasi verde e silenziosa che si cela dietro il cancello mi coglie di sorpresa e mi riempie di pace e senso di abbandono . Aiuole fiorite, vialetti lindi e ben tenuti, grandi parei di cotone variopinto stesi ad asciugare al sole , facce sorridenti e ospitali.
“Eccoli, sono arrivati !” Il gruppetto che ci attende sulla soglia della missione è sinceramente felice del nostro arrivo e si proffonde in baci e calorosi abbracci a tutti, me compresa che sono per loro una sconosciuta. Tutte noi donne riceviamo in segno di benvenuto un meraviglioso mazzolino di tuberose e rose rosse che inonderà del suo intenso profumo la mia stanza per moltissimi giorni, profumo che ancora oggi mi evoca immediatamente il ricordo di quell’incredibile paese.
Scaricati i bagagli e assegnate le stanze, ci cambiamo in fretta e furia e scendiamo al piano terra in ambulatorio. Nel giardino dell’ospedale c’è un gazebo fiorito che funge da sala d’attesa , gremito di mamme e bambini giunti da ogni parte del paese per essere visitati e curati. Dentro il primo, poi il secondo paziente e così via fino a sera. Carmine smista, dispone, esplora perinei e fa diagnosi anche con una sola occhiata o al massimo con l’aiuto di un sondino esploratore. “Questo in sala domani, questo giovedì,…” Sono sbalordita! Tutto quello che avrebbe impegnato tutti noi, strutturati, specializzandi e infermieri dell’Unità Operativa ex Istituto, ex Clinica Universitaria di Chirurgia Pediatrica a Bologna per settimane intere con dispendio di mezzi e forze, risonanze magnetiche, cisto e urografie, TAC spirali, dotte, interminabili quanto a volte assolutamente inutili discussioni davanti al diafanoscopio col Direttore e tutta l’equipe schierata, veniva semplicemente liquidato in pochi minuti. Già risolto! La mia mente, ormai arrugginita dall’abitudine ai complessi e contorti ragionamenti accademico-universitari, seppur colti, stentava a tenere il ritmo vertiginoso di quelle diagnosi all’impronta, in tempo reale, fatte in modo corretto ma semplice ed efficace. Fuori uno, dentro l’altro, e via andare! Senza tutta la prosopea accademica nella quale gli universitari sono insuperabili maestri.
L’indomani sveglia alle 7 e colazione nella sala da pranzo che ha al centro un gran tavolone già imbandito , poi ci infiliamo le divise verdi e scendiamo in reparto per il giro di visita. In sala operatoria, che è sempre al piano terra, è già iniziata l’induzione del primo paziente : un megacolon congenito, un intervento di almeno 4 ore. Forse seguirà poi qualche testicolo ritenuto?, un’ernietta? Una fimosi? Macchè. Dopo il megacolon ci sono una ricostruzione di vagina con un tratto di intestino in una paziente con sindrome di Rokitansky, due ipospadie e una malformazione ano-rettale, tutti interventi di altissima chirurgia. Non credo ai miei occhi. Gli anestesisti si avvicendano sul tavolo operatorio, anche loro con grande semplicità intubano, incannulano vene giugulari, montano elettrodi, curarizzano, infilano cateteri vescicali e via dicendo. Tutto da soli!!! Intanto, col passare delle ore, la temperatura della sala operatoria sale gradualmente fino a raggiungere livelli vertiginosi di caldo umido nel pomeriggio, quando il sole batte sulle finestre, oscurate da quattro pennellate di vernice verde . Entra in funzione il condizionatore che fende l’aria con una specie di sciabola ghiacciata che ti arriva dritta dietro al collo. Niente condizionatore! Intanto Celentano ripete per l’ennesima volta che non sa parlar d’amore e che l’emozione non ha voce…e alla fine della prima giornata di sala operatoria sappiamo già a memoria tutte le canzoni del suo nuovo CD, che tuttora mi fanno lo stesso effetto delle tuberose. Ogni tanto Carmine mi manda su nel “Solarium” , un grande terrazzo all’ultimo piano adibito a lavanderia, ad “asciugarmi i polmoni” perché l’influenza è già passata, ma ha lasciato il posto ad una fastidiosa tosse che evidentemente preoccupa il Boro Doctor Carmine (dove Boro sta per “capo”). La mattina ci infiliamo la divisa verde e ce la togliamo solo la sera prima della doccia . La strumentista di Parma ha portato dall’Italia dei triangoli di garza bianca da usare al posto dei cappellini di sala, una sorta di turbante , comodissimo e fresco, e anche quello ci accompagna fino a sera.
Alla missione di Kulna si mangia benissimo: cibi piccanti e speziati , tanta verdura , e la sera la pasta portata dall’Italia e cucinata abilmente da Carmine . A cena c’è sempre qualche ospite: italiani in transito, padri saveriani di altre missioni vicine , e scopro che esiste nel mondo una categoria di persone incredibili che dedicano completamente la loro vita a fare del bene agli altri, senza chiedere niente in cambio. Qui infatti, a differenza di altri paesi del cosiddetto terzo mondo che ho visitato, ai missionari è rigorosamente proibito fare evangelizzazione e cercare di convertire un musulmano al cristianesimo . Il governo è rigidissimo su questo. Tollera i missionari per ovvi motivi di convenienza, a patto che non si parli di religione.
Tra i padri saveriani (i fratacchioni come li chiamiamo scherzosamente noi) ci sono coloro che dormono nelle tende delle baraccopoli in mezzo ai più poveri, in assoluta miseria, quelli che raccolgono i bambini di strada, li allevano, li istruiscono e li strappano a un destino di emarginazione estrema. Persone incredibili! E penso al nostro benessere da noi in Italia. Alla corsa ai telefonini, agli abiti firmati, a tele più, tele 2, macchinone e city car argentate e a chi ce l’ha più bella, più potente, più costosa. Quante cose inutili! E pensare che qui invece non hanno niente. Al massimo i più fortunati una bicicletta scassata e arrugginita che diventa l’azienda di famiglia.
La sera si gioca a carte, si chiacchiera , si studiano gli interventi del giorno successivo e io trovo anche in Bangladesh il pretesto per mettere su uno sgangherato corpo di ballo (chi mi conosce sa della mia passione per la danza) e mi lancio nell’allestimento del difficilissimo balletto “Thriller” di Michael Jackson, con ovvi risvolti esilaranti. Simone, l’anestesista, intrattiene i presenti con barzellette più o meno inedite, ma divertentissime e raccontate benissimo. Più tardi, quando la notte ammorbidisce i toni e invita alla confidenza, inevitabilmente si va sul personale. Tutti più o meno abbandonati su divani e poltrone, o sotto sacchi a pelo sul pavimento del terrazzo ascoltano qualcuno raccontare qualcosa della propria vita e dei propri problemi e tutti partecipano con commenti e consigli.
“Il Bangladesh ti cambia la vita”- mi dice Carmine una sera sotto un cielo incredibile di stelle- “ha fatto lo stesso effetto a tutti, aspetta e vedrai, lo farà anche a te”.
Certo è un’esperienza che si sta rivelando fantastica, ma mi chiedo: in che modo potrebbe cambiarmi la vita?
-E che si dice del nuovo primariato di Rimini?- chiede Carmine un’altra sera in cui si parlava di primariati e carriere. Rispondo che non ne so niente e che comunque per ora non mi sento pronta per una scelta di quel genere.
La mattina dopo, di nuovo in reparto per la visita, poi via in sala . La grande camerata è piena di bambini e di mamme e subito mi colpisce una cosa anomala: il silenzio che regna nel reparto. I bambini bengalesi non piangono, neanche i più piccoli. Non piangono quando fanno i prelievi, non piangono quando devono mangiare, quando entrano in sala operatoria con le loro buffe cuffiette . Di capricci non ne parliamo neanche. Carmine dice che i bambini non piangono perché sanno che è inutile! Fatica sprecata. La sala operatoria è in funzione continuativamente fino a sera, tutti i giorni, anche la domenica. E tra una neovagina e uno sternal cleft, un megacolon e un’ipospadia, una malformazione ano-rettale e una ricostruzione di un’uretra traumatizzata, le giornate scorrono tranquille e organizzate e tutto s’incastra a meraviglia.. Ma allora esiste un modo di lavorare diverso da quello che mi hanno insegnato nella Grande Clinica Universitaria, ma altrettanto efficace, certamente più economico, senza tanti fronzoli. E il bello è che i bambini guariscono lo stesso e le mamme tornano a casa contente. Ammiro Carmine e la sua sicurezza. Lui visita, dispone, smista, manda i bambini in giardino a fare “elioterapia” , opera, senza soluzione di continuità, con decisione, senza tentennamenti. Fare il capo gli viene benissimo, ce l’ha proprio nel sangue. E io penso che mi piace proprio quel modo di fare il capo, così in prima linea e penso anche che in fondo verrebbe bene anche a me.
E intanto i giorni passano e il clima migliora sempre di più, come la mia salute, il mio umore e la mia sicurezza.
“Rimini….Non ne so niente ma mi informerò al mio ritorno in Italia. Ma tanto…”.
Un paio di volte Carmine ha accompagnato Padre Alfonso per dei giri in città, lasciando a me tutta la gestione del piccolo ospedale. E questo mi provoca un po’ di ansietà, ma poco dopo, imitando il suo modo di lavorare, l’ansia lascia il posto alla sicurezza e ben presto anch’io mi muovo con facilità ed efficienza. Beh, sì…, mi dico, in fondo viene bene anche a me fare il capo.
Una domenica Carmine ci ha portato a fare una gita sul grande fiume sacro: il mitico Gange . L’eccitazione per quell’avvenimento era già alle stelle fin da venerdì e in sala operatoria non si parlava d’altro ..”Tu cosa ti metti?, Io pensavo a pantaloni mimetici e maglietta”, “Chi porta la macchina fotografica?” “Io porto la telecamera…” Un’altra volta siamo andati al mercato con i risha e ci siamo divertiti come scolaretti a una gita scolastica con la maestra. Ci siamo riempiti di spezie , brocche di ottone e anacardi e io e Franca abbiamo perfino comperato dei sahari colorati e perle di fiume al vicino Boro Market .
Carmine ci ha proibito di mangiare alcunchè fuori dalla missione e in particolare dalle bancarelle, che invece sono così invitanti. Dice che è pericoloso e probabilmente ha ragione, ma una sera che accompagnavo padre Alfonso a fare una commissione fuori, lui mi ha convinto ad assaggiare una “lucy”, una sorta di frittella ripiena di spezie piccanti. Una vera delizia. Da quella sera, prima di cena, come aperitivo una lucy è diventata d’obbligo.
Sull’aereo nel viaggio di ritorno, penso che questa è stata davvero un’esperienza indimenticabile e ripercorro tra le tante immagini, quelle che più hanno lasciato un segno nella mia memoria: le suore di madre Teresa di Calcutta che stendono il bucato la mattina presto sul terrazzo della loro casa che confina con la nostra missione e che ti salutano all’indiana congiungendo le mani , il profumo delle tuberose, il grigiore degli argini del fiume e delle carrette arrugginite che sul fiume navigano stracolme di persone e mezzi fino all’inverosimile, le cataste di mattoni rossi da spaccare per fare la ghiaia con seduti sopra decine di bambini e donne con gli ombrellini, armati di martello, le spezie e i sorrisi sdentati del mercato , gli spezzatini odorosi di profumi esotici, la quantità sorprendente di pazienti in attesa in giardino, i bambini bellissimi nei letti della corsia con le loro copertine rosse, bambini che non piangono MAI . …, mangiano e giocano in silenzio e non fanno mai capricci, al massimo una lacrimuccia durante il prelievo.
Mentre chiudo gli occhi e l’aereo atterra, penso al primariato a Rimini… E perché no !?! …appena arrivo a casa mi informo.
Chissà, forse veramente prima del Bangladesh non avrei preso la decisione di venire a fare il primario di chirurgia pediatrica qui a Rimini, e ora sono ben felice di averlo fatto.
E’ proprio vero Carmine! Il Bangladesh ti cambia la vita! E l’ha cambiata anche a me. E in meglio.