Giovedì 13 Dicembre 2018 – Carlo Cottarelli in visita al Rotary Club di Rimini

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Una serata con un amico speciale del Rotary Club di Rimini quella del 13 Dicembre scorso. Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano, professore associato presso l’Università Bocconi di Milano con il corso di Fiscal Macroeconomics, nonché Presidente del Consiglio Incaricato dopo le elezioni politiche del 4 marzo a seguito dell’iniziale tentativo fallito da parte di M5S e Lega di formare un governo, ha onorato con la propria presenza la conviviale al Grand Hotel del Rotary Club Rimini.
Un evento trasformatosi nell’occasione di un’ampia digressione da parte del gradito ospite e relatore sullo stato dell’economia italiana, europea e mondiale. Riflessioni sul pesante debito pubblico italiano che ha raggiunto i livelli più alti di sempre, riportandosi ai valori di 100 anni fa quando uscivamo però dalla Prima Guerra Mondiale.
L’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea, con le note conseguenze della progressiva perdita di competitività delle imprese del nostro paese ove i costi di produzione nei primi 10 anni “di euro” sono aumentati del 30% a fronte di un incremento praticamente nullo dei medesimi costi in Germania. Il fenomeno è sostanzialmente legato all’incremento della spesa pubblica determinato dal governo di allora in relazione all’improvviso abbassamento dei tassi di interesse. Il denaro costava meno e dunque era più facile spenderlo. Gli aumenti notevoli degli stipendi del settore pubblico di quegli anni hanno determinato gioco-forza analoghi aumenti dei salari nel settore privato, determinando ovviamente incrementi nei costi di produzione. La cosa non è accaduta in Germania ed in altri paesi europei che prima dell’euro avevano già tassi di interesse piuttosto bassi. Per questo motivo l’Italia è cresciuta meno degli altri paesi europei incrementando sensibilmente l’import, contraendo l’export e conseguentemente portando in rosso i conti con l’estero.
Da quel momento siamo osservati speciali dai mercati per diversi motivi. Il primo certamente è legato al fatto che la via più facile per riacquistare competitività è notoriamente quella della svalutazione. E dunque dopo i primi 10 anni di euro in cui il nostro paese passava per così dire “inosservato”, i primi timori degli investitori per l’insorgere del sospetto che l’Italia potesse essere tentata ad uscire dalla moneta unica per riprendersi la nuova lira, svalutarla e riacquistare competitività. Se ci pensiamo la cosa accadde già negli anni ’70. Svalutammo la lira e riacquistammo competitività.
Il secondo motivo che ci rende osservati speciali è il nostro debito pubblico in rapporto al Prodotto Interno Lordo. il problema nasce sempre nei primi anni di moneta unica. Al contrario di altri paesi come il Belgio, non siamo stati capaci di approfittare della riduzione dei tassi per ridurre il debito. Anche in questo caso i mercati sanno che la scorciatoia per risolvere il problema del debito pubblico potrebbe essere rappresentata dall’uscita dall’euro. E gli investitori da allora sono piuttosto restii ad operare in Italia per evitare il potenziale rischio di acquistare titoli in euro e vederseli ripagare in nuova lira svalutata.
In questo contesto il famigerato “spread”, che nei primi 10 anni dell’euro, per così dire non esisteva in quanto non eravamo osservati speciali, non è una congiura internazionale contro di noi, bensì un aspetto fisiologico legato alla fiducia degli investitori.
Per fare scattare l’incrementare lo spread devono coesistere due condizioni: un elevato debito pubblico e lo stesso debito deve iniziare a crescere.
Ci sarà a breve una nuova crisi in Italia? Uno spread sopra 500 punti, anche per un periodo non troppo lungo, determinerebbe il collasso della nostra economia, un po’ come quanto accadde nel 2011, quando Berlusconi si fece da parte e con la politica del rigore di Monti per un soffio evitammo la bancarotta, ma a costo di sacrifici enormi in parte determinati anche dal permanere ad altissimi livelli dello spread per un tempo oltre il dovuto. Un perdurare eccessivo, nonostante la “cura” del rigore, probabilmente legato alla posizione di Mario Draghi, italiano, allora appena nominato al vertice della BCE, che per questioni di opportunità non poteva prendere posizioni immediate a favore del suo stesso paese. Il recente annuncio della riduzione delle previsioni di rapporto deficit/pil dal 2.4%al 2.04% nella sostanza non avrebbe di per sé grande rilievo, ma l’aspetto psicologico risulta predominante. Tranquillizza i mercati. Se verrà a breve confermata nella manovra finanziaria la previsione del rapporto deficit/pil a circa il 2%, lo spread dovrebbe scendere un po’ rispetto ad oggi, ma non ritornerà ai livelli dello scorso marzo prima dei roboanti annunci anti-europeisti del nuovo governo giallo-verde.

L’evento preoccupante che potrebbe aumentare il rapporto debito pubblico/pil è la recessione. La recessione potrebbe venire anche dall’ esterno. L’America è in crescita dal 2010. Questa crescita però potrebbe fermarsi. L’Europa è in crescita, sebbene lenta, dal 2014. Il problema del nostro paese è che potrebbe essere lui stesso a subire le conseguenze peggiori a seguito di recessioni dei mercati esteri. Una recessione anche piccola infatti da noi scatenerebbe una crisi di fiducia e lo spread inizierebbe a crescere in maniera incontrollata. Una piccola recessione si trasformerebbe da noi in una grande recessione. Siamo come una nave con delle falle sopra la linea di galleggiamento. Se il mare è calmo naviga bene, ma se il mare si agita imbarca acqua e rischia di affondare rapidamente. Le falle sono le nostre debolezze strutturali.
Debolezze strutturali determinate anche da altri due enormi problemi del nostro paese quali l’evasione fiscale, le cui perdite per lo stato sono stimate intorno ai 100 miliardi di euro e l’eccesso di burocrazia. In Germania le imprese assumono nuovi operai per destinarli alla produzione. In Italia la maggior parte dei neoassunti sono destinati invece ad assolvere i crescenti adempimenti di carattere burocratico che attanagliano le imprese. Si deve assolutamente cercare di tassare meno il lavoro. Se le imprese sono meno tassate aumentano i loro profitti, i profitti sono meno tassati e gli investitori vengono ad investire più volentieri. Purtroppo l’errore che spesso si fa qui in Italia è pensare di abbassare le tasse senza trovare fonti di investimento, ovvero prendendo a prestito il denaro. Tagliare le tasse per mettere più soldi intasca agli italiani facendo deficit significa che lo stato deve prendere a prestito quei soldi. Ma da chi li prende a prestito quei soldi? L’assurdo è che in un momento come questo, in cui gli investitori se ne stanno andando via e nessuno presta più soldi all’Italia, l’unico posto dove prendere questi soldi sono le tasche degli italiani!