La notte tra il 5 e il 6 febbraio del 1975 a Urbino avvenne quello che all’epoca fu definito “il furto del secolo” e che possiamo dire, in un certo senso, cambiò il modo con cui l’Italia si prese cura del proprio patrimonio artistico.
Era una notte con una nebbia che andava ad avvolgere i viottoli della cittadina urbinate, compreso il Palazzo Ducale, custode di alcuni tra i più grandi capolavori del Quattrocento e Cinquecento italiano. In quel periodo il Palazzo Ducale era oggetto di lavori, grandi impalcature cingevano l’intero edificio. Proprio grazie ad esse, due o più persone entrarono nel palazzo, intrusione favorita anche grazie alla totale assenza di un sistema di allarme.
Lo smacco sarà grandissimo, soprattutto alla luce delle parole pronunciate qualche giorno prima dall’allora soprintendente alla Galleria Nazionale delle Marche, Italo Faldi, che comparavano il Palazzo Ducale di Urbino ad una fortezza inespugnabile. Una fortezza, come detto, sprovvista di qualsiasi tipo di sistema d’allarme, sicurezza garantita da ben ventidue guardie giurate la mattina, ma solo due la notte, che percorrono i corridoi e le stanze illuminate solo dal fascio delle loro torce, in quanto la notte, forse per risparmiare, l’energia elettrica veniva staccata. Ciò basterà ai malviventi per attuare il loro piano, avendo ormai capito che i custodi percorrono le stanze per i dovuti controlli ogni due ore.
In quella notte dal Palazzo Ducale di Urbino, furono rubate tre delle opere più meravigliose del Rinascimento italiano, “La Muta” di Raffaello, “La Flagellazione” (a quei tempi era inserito in una lista di trenta capolavori che andavano salvati a tutti i costi in caso di una guerra nucleare) e “La Madonna di Senigallia” di Piero della Francesca.
Questo furto, ribattezzato “il furto del secolo”, vista l’importanza e il valore inestimabile delle tele, portò il Paese per la prima volta a capire l’importanza di tutelare il patrimonio artistico, una ricchezza da dover difendere e non da dare per scontata. Non sarà un caso, che Giovanni Spadolini, allora a capo del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, nei giorni seguenti dovrà recarsi a Urbino per testimoniare la vicinanza delle istituzioni verso quel furto sacrilego ai danni del patrimonio artistico italiano. Una visita, a dir si voglia storica, la prima visita ufficiale di un ministro dei Beni Culturali, ministero nato poche settimane prima proprio con lo scopo di rendere efficace ed organica la tutela del patrimonio artistico.
E il socio del Rotary Club Rimini, il tenente colonnello dei Carabinieri in congedo Nevio Monaco, fu protagonista del ritrovamento, come raccontano le cronache del tempo, grazie a un’azione non solo di intelligence ma anche di intuizione e di una strategia degna di un romanzo giallo, che lo stesso ex ministro Spadolini commenterà con un intervento sulla stampa «E penso ai carabinieri del Nucleo per il patrimonio artistico … si deve a loro, alla loro opera silenziosa e tenace, l’individuazione della trama, la scoperta dei colpevoli, il ricupero delle opere straordinarie. Impegnati da mesi e mesi in questa pista, senza mai un cedimento alla pubblicità o alla vanità, esempi di uno stile che dovrebbe essere additato a molti corpi dello Stato». Un furto definito dagli organi di stampa internazionali come “il più grande che la Storia ricordi”.
E a distanza di quasi cinquant’anni Nevio Monaco ci racconta la storia vera, accaduta ricordiamo durante gli anni di piombo, attraverso il volume “Il carabiniere e l’antiquario. Il furto del secolo tra intrighi, rivalità ed encomi”.
«Il furto di tre preziose opere pittoriche, la Muta di Raffaello, la Madonna di Senigallia e la Flagellazione di Piero della Francesca, dal Palazzo Ducale di Urbino, avvenuto nella notte tra il 5 e 6 febbraio 1975 è stato definito il furto del secolo. Su questo grave episodio la stampa e la televisione hanno scritto, dibattuto e analizzato ogni aspetto ed ogni particolare delle indagini, che dopo oltre un anno hanno permesso di recuperare i quadri ed arrestare i ladri. Ma di questa incredibile vicenda nessuno ha mai parlato o scritto di un intrigante retroscena e di una parte di questa storia che ha coinvolto due protagonisti che furono gli artefici del ritrovamento dei quadri» ci ha evidenziato Nevio Monaco.
Allora Capitano dei Carabinieri, impegnato nella lotta al terrorismo (come raccontato poi in un altro libro, “Il capitano deve morire. Le vicende di un protagonista degli anni dell’odio e della violenza nel mirino dei terroristi e dei mafiosi 1974-1979») si inserisce nella stria quasi per caso.
Il clamoroso furto di Urbino ha come quinta teatrale la Bologna degli anni settanta, dilaniata dalla guerra civile tra gli estremisti di sinistra e i difensori dello Stato. All’epoca il Capitano Monaco comandava il nucleo investigativo di Bologna e descrive l’amico Balena ed ex compagno di scuola come «uno dei più bravi esperti di antiquariato in campo nazionale, che in quel periodo aveva appena aperto un negozio di antiquariato a Bologna con il socio Pier Francesco Savelli. I fatti successi a Urbino, inizialmente, non interessano il Capitano Monaco, che in quel periodo conduce indagini di ben altro tipo, tuttavia il Capitano ha un’intuizione che poi si rivelerà decisiva nel proseguo delle indagini, farà mettere sotto controllo i telefoni del Balena e del Savelli. Dalle intercettazioni emergeranno conversazioni riguardati il furto dei dipinti ad Urbino. Nevio fa arrestare il Balena con l’accusa di essere implicato nel furto di un crocifisso ligneo attribuito a Giotto da una chiesa di Tredozio e fa mettere sotto sequestro il suo negozio a Bologna: la sua tattica era chiara convincere Balena a rivelare ciò che sapeva sui dipinti trafugati a Urbino. I due stringono un patto d’acciaio, la restituzione del negozio per il suo interessamento ai quadri di Urbino, ma a questo punto la vicenda si complica, il furto è diventato ormai un caso nazionale … ma il resto lo lasciamo alla vostra lettura del libro.
Nevio Monaco ha presentano il libro “Il carabiniere e l’antiquario. Il furto del secolo tra intrighi, rivalità ed encomi”, (che ricordiamo è pubblicato da Panozzo editore) il 7 ottobre alla conviviale del Club. L’autore ha deciso di devolvere i suoi proventi e di concerto con il Rotary Club di Rimini un certo numero di copie sono state acquistate per un service a favore dell’Istituto Oncologico Romagnolo.
In tal senso si ricorda ai soci del Rotary Club Rimini che non hanno ancora avuto il libro lo potranno ritirare dal nostro prefetto.