Clicca qui per leggere ARIMINUM Anno XXVIII – N. 5 – Settembre – Ottobre 2021
Dante e gli asterischi Chiamiamo l’Alighieri il “Padre Dante”, perché lo consideriamo genitore (teorico e pratico) della nostra lingua e della nostra civiltà letteraria, ma non ne fu certo il creatore. Egli stesso proviene dall’uso popolare del fiorentino e da quello colto del volgare preceduto da maestri siciliani, toscani, bolognesi, nordici.
Proviene altresì dal latino liturgico e da quello monastico e scolastico e dalla conoscenza di molti classici. Il suo lessico ha tessuto insieme ogni possibile registro formale e stilistico, ed è stato capace di esprimere nella Commedia tutte le esperienze emotive e intellettuali, dalla feccia infernale fino all’ineffabile visione mistica: il Paradiso checché se ne scriva è il suo vero capolavoro perché ne rivela la capacità di raccontare e descrivere, usando solo le metafore del suono e della luce.
La lingua di Dante ingloba e trasforma, è precisa e sperimentale. Se nessuno crea dal nulla la lingua, ognuno di noi ne è generato come da un organismo vivo, che ci precede, e senza il quale il mondo, esteriore e interiore, sarebbe un fluire privo di senso. Ereditiamo una lingua come una dimora: vi abitiamo a lungo e la adattiamo a noi, singolarmente e come società complesse, vi apportiamo mutamenti che possono elevarla o degradarla; la codifichiamo e in seguito ne allarghiamo i confini a contaminazioni ed eccezioni che provengono dal parlato comune.
Eppure non possiamo inventarla se non come convenzione tecnica tra specialisti: l’esperanto (sgradevole Frankestein linguistico) non sostituirà nessuna lingua classica o vivente, né mi auguro s’instaurerà la moda “inclusiva” dell’asterisco e della “schwa”, sorta per evitare che il maschile inglobi il femminile o per non urtare la sensibilità di chi non si riconosce in nessuno dei due generi. Se l’allargamento dei diritti individuali e delle minoranze è, a tutti gli effetti, una conquista per ognuno di noi (lotte contro l’ignoranza, il pregiudizio, la violenza e l’ingiustizia) è però necessario che il perseguimento del bene sia espresso adeguatamente, evitando l’infermeria inquietante e sterilizzante del politicamente corretto (malattia senile di una sinistra imborghesita e fiacca), della censura storica retroattiva (anche sulla lingua) e di altre amenità.
La lingua viva, è spesso scorretta, esclusiva, mordente: per questo chi ama la giustizia torni alla ricchezza inesauribile e vera dell’italiano (e dei suoi dialetti), torni alla fragranza di Manzoni (sì proprio lui), alla Commedia di Dante o a Pasolini. Lì troverà la potenza per dire sé e il mondo, la sua esperienza e le sue battaglie. di Alessandro Giovanardi